Illustrazione di una donna influenzata (Canva FOTO) - biomedicalcue.it
Grazie ad un “oggetto” comune, masticato almeno una volta nella vita, sarà possibile fare delle diagnosi efficaci.
L’influenza è da sempre una delle avversarie più ostinate della salute pubblica. Ancora oggi continua a causare milioni di infezioni respiratorie e centinaia di migliaia di morti ogni anno. Le sue due forme principali, l’influenza A e B, si suddividono in numerosi ceppi, ognuno con proprie caratteristiche. Questo rende diagnosi e prevenzione un vero rompicapo, perché i virus cambiano, mutano, e sfuggono spesso al controllo.
Negli ultimi decenni la medicina ha fatto passi enormi, eppure un ostacolo resta quasi impossibile da aggirare: la trasmissione presintomatica. Chi è già infetto può contagiare altri anche prima di avvertire il minimo sintomo. E questo complica tutto. Per contenere un’epidemia serve infatti riconoscere subito chi è portatore del virus, ma i test classici, per quanto accurati, sono spesso costosi, lenti o poco accessibili.
Un gruppo di ricercatori ha deciso allora di ragionare fuori dagli schemi, con un’idea tanto curiosa quanto geniale: trasformare la lingua umana in un sensore. L’idea nasce dal ruolo della neuraminidasi, un enzima chiave del virus influenzale, che taglia legami chimici (α-glicosidici) durante il ciclo infettivo. Se una molecola sensibile venisse costruita per reagire a quell’enzima e rilasciare un sapore preciso… ecco che la bocca stessa potrebbe diventare un rilevatore.
Può sembrare fantascienza, ma non lo è. Lo studio, pubblicato su ACS Central Science, mostra che è possibile sintetizzare molecole capaci di “rispondere” alla presenza del virus liberando una sostanza aromatica come il timolo, dal caratteristico sapore balsamico.
La sfida era tutt’altro che semplice: costruire un sensore che reagisse solo alla neuraminidasi virale, ignorando completamente quella batterica o enzimi simili. Per riuscirci, i ricercatori hanno sviluppato due versioni della molecola. La prima, definita reference sensor (6), lega il timolo a un N-acetilneuraminico “non metilato”. La seconda, più raffinata, lega il timolo a una forma 4,7-di-O-metilata della stessa molecola: il cosiddetto sensore (15). È proprio quest’ultimo a mostrare la selettività desiderata, resistendo agli enzimi batterici ma reagendo quando entra in contatto con la neuraminidasi virale.
Il percorso sintetico per ottenerli è un piccolo capolavoro di chimica organica. Si parte dall’acido neuraminico, che viene modificato con passaggi di acetilazione, clorazione e infine una reazione di glicazione (tramite il metodo di Mitsunobu, più efficiente del Koenigs–Knorr). Dopo vari cicli di purificazione e ottimizzazione, si ottengono i sensori finali, stabili e selettivi. Le differenze strutturali, osservano gli autori, sono ciò che rende il sensore (15) capace di distinguere tra enzimi virali e batterici, garantendo un comportamento specifico e riproducibile.
Una volta sintetizzate, le molecole sono state messe alla prova in laboratorio, dapprima in soluzioni tampone (PBS), poi in saliva umana. I risultati parlano chiaro: in presenza di neuraminidasi virale (virus H1N1), il sensore (15) libera timolo in circa 30 minuti, mentre il sensore (6), quello non modificato, reagisce anche con enzimi batterici, perdendo precisione. È un po’ come avere un allarme che suona per qualunque rumore, invece che solo per l’effettivo intruso. Nei test con saliva di pazienti positivi al virus, il sensore (15) ha confermato la sua specificità: nessuna reazione senza virus, nessun falso segnale da attività batteriche. Solo in presenza della neuraminidasi virale il timolo viene rilasciato — e la quantità emessa è proporzionale alla concentrazione del virus. Anche la stabilità è notevole: la molecola resta integra al 95% dopo settimane di conservazione, salvo in condizioni di calore estremo (50 °C).
Le simulazioni di molecular docking mostrano inoltre che il sensore si adatta perfettamente al sito attivo della neuraminidasi virale, ma non a quello batterico, confermando così la sua selettività. Secondo gli autori, bastano pochi milligrammi di composto per un potenziale utilizzo orale. E in futuro si potrebbe persino sostituire il timolo con sostanze più sensibili, come il denatonio, o con un colorante per ottenere una risposta visiva. Alcuni media internazionali, tra cui Newsweek e EurekAlert!, hanno ripreso lo studio sottolineando che in prospettiva futura i ricercatori potrebbero integrare il sensore in una gomma da masticare o in una pellicola orale sottile, così da consentire una diagnosi rapida e a basso costo anche fuori dagli ambienti clinici.